Cosa furono questi campi fascisti? Alcune riflessioni di Giuseppe Perri tratte dal suo libro "Stato d'eccezione" pubblicato nel 2013

Il vuoto giuridico in cui agirono i governi nel corso del secondo conflitto mondiale, per l’assenza di Convenzioni internazionali in materia, va tenuto in debito conto in sede di giudizio storico dell’internamento di civili e di una valutazione sul piano del diritto delle norme di applicazione; esso gioca certamente in favore dei governi e della legittimità delle loro decisioni. Non bisogna però tralasciare eventuali illegittimità nel diritto interno oppure abusi e decisioni che contrastino con norme cogenti di diritto internazionale, quelle stesse che hanno poi portato alla creazione del tribunale di Norimberga.

In un lavoro che ha impostato una tassonomia scientifica dei campi di concentramento novecenteschi, Joël Kotek e Pierre Rigoulot hanno introdotto un indice del fenomeno assai utile. In primo luogo occorre ben distinguere i campi dalle prigioni, poiché queste ultime sono riservate a persone condannate o in attesa di giudizio con l’accusa di aver commesso dei reati. I campi sono invece luoghi di reclusione paradossali, un istituto tipicamente novecentesco dedicato agli innocenti, cioè a persone che non hanno commesso crimini o che addirittura non possono commetterne. Una reclusione che definirei ontica, comminata per il solo fatto d’esistere.

All’interno della nozione di campo, i due autori citati pongono opportunamente la differenza fra campi d’internamento, campi di concentramento e campi di sterminio. I campi d’internamento «hanno la funzione di isolare temporaneamente individui sospetti o pericolosi. Rientrano in questa categoria i campi creati durante i conflitti bellici (…). Nella maggior parte di questi campi non si pratica il lavoro forzato: la loro funzione è meramente preventiva, non produttiva. Le condizioni di vita possono essere dure, talvolta atroci» [1]. I campi di concentramento sono invece consustanziali ai regimi totalitari e rappresentano una struttura fondamentale di quei regimi al fine di terrorizzare e plasmare la società; essi non sono dunque temporanei o «contingenti» [2]. I campi di sterminio sono impiantati per assassinare immediatamente tutti coloro che vi giungono; Treblinka ne è un esempio, non esistendovi né alloggiamenti né viveri, ma solo macchinari di morte, mentre Auschwitz rappresenta una struttura mista di concentramento e sterminio[3].

Possiamo lasciare sullo sfondo Treblinka e le terribili questioni che pone il campo di sterminio, poiché non si tratta di questo quando si analizzano i “campi del Duce” (almeno prima della nascita della RSI, i cui campi divennero un anello del sistema concentrazionario nazista) o gli altri campi creati da Francia, Usa e Gran Bretagna nel corso del Secondo conflitto mondiale. Nel loro caso il giudizio storico si trova invece a dover rispondere a due quesiti fondamentali: l’internamento di guerra era legittimo oppure ha dato vita ad abusi giuridici, distorsioni sociali, strumentalizzazioni politiche? E poi, tutti questi campi ebbero un che di concentrazionario o vanno tutti considerati campi d’internamento temporaneo e limitato? Alla prima domanda ha già risposto, come sappiamo, il governo degli Usa, che ha riconosciuto gli abusi e ha addossato al «vuoto di leadership politica» la responsabilità di quegli abusi; ma il lavoro di Robinson ci ha anche mostrato come le violazioni furono ampie e come le loro cause storiche siano state profonde. Violazioni simili a danno dei propri cittadini e del diritto interno, anche se su scala più ridotta, furono commesse pure dal governo britannico e da quello francese. Restano da valutare le eventuali violazioni al diritto internazionale, su cui ci soffermeremo meglio nel corso dell’analisi del caso italiano.

Anche alla seconda domanda si può dare una risposta sulla base di quello che abbiamo esaminato finora: aspetti concentrazionari non mancano in tutti i casi che abbiamo visto, sia dal punto di vista dell’asprezza delle detenzioni sia dal punto di vista delle finalità politiche dell’internamento. Risulta infatti evidente che molti registi dell’internamento si ponevano obiettivi politico-sociali di tipo xenofobo, razzista e di restringimento delle libertà pubbliche.

Per quanto attiene all’internamento italiano nel corso del secondo conflitto mondiale, esso fu inquietante poiché il criterio principale che lo guidò non fu l’appartenenza nazionale, ma quella razziale. Era il regime che decideva chi fosse un “ebreo straniero” o un “allogeno”; e come abbiamo visto, gli internati appartenevano in maggioranza a queste categorie coniate dal regime. Se scandaloso e paradossale fu il fatto che inglesi e francesi internassero ebrei e dissidenti soltanto perché tedeschi, ancor più scandaloso risulta l’internamento di cittadini tedeschi o ex austriaci (quindi appartenenti a Stati alleati) operato dal regime fascista italiano sulla base del fatto che costoro erano “ebrei stranieri”.  Sulla necessità di non sminuire il fenomeno dell’internamento italiano, si potrebbe aggiungere che non deve trarre in inganno la definizione di campi ‘regolamentari’, poiché non bisogna dimenticare che si trattava di un decreto d’internamento che, ancor prima di essere un regolamento (per quanto non completamente inumano) per gli internati, non rispettava l’habeas corpus poiché non prevedeva processi, garanzie o ricorsi. Bisogna poi considerare che il decreto del Duce del 4 settembre 1940 fu emanato quando la maggior parte degli internamenti era già stata effettuata ed ebbe quindi un carattere retroattivo, dunque antigiuridico. Infine il carattere razzista di buona parte dell’esecuzione del provvedimento lo rende ancor più debolmente “regolamentare”, per quanto il rispetto sostanziale delle norme contenute nel decreto del Duce e l’equiparazione degli internati ai prigionieri di guerra li mise al riparo di gravi abusi ai loro danni.

In linea di fatto, poi, fu lo stesso regime ad usare la nomenclatura “campo di concentramento”; fu il regime, ancora, a vedere una continuità fra confino e internamento, nel concepire il progetto del campo di lavoro di Pisticci per confinati e nell’affidare alla stessa ditta che aveva progettato quello di Pisticci la costruzione del campo di Ferramonti. Infine, fu il regime a dichiarare, come abbiamo già riportato, che gli “ebrei stranieri” sarebbe comunque finiti tutti in campi di concentramento, anche se l’Italia non fosse entrata in guerra.

Il punto decisivo è che Mussolini approfittò della guerra per fare i suoi campi e per perfezionare la sua politica razziale, che non era uguale nei modi e nei tempi a quella di Hitler, ma che era razziale anch’essa. Oltre agli “ebrei stranieri”, furono internati anche i rom e sinti italiani, in quanto “zingari”. Furono internati anche gli “zingari” stranieri, che erano sottoposti al provvedimento automatico dell’espulsione fin dal 1926. L’ordine di arresto e internamento degli zingari fu emanato con circolare sottoscritta da Bocchini nel settembre 1940, poi reiterata nell’aprile del 1941[4]. Infine, vecchi e nuovi oppositori politici del regime, solo per il fatto di essere tali, furono sottoposti anch’essi all’internamento, nei campi o nei comuni. Come abbiamo già ricordato, alcune centinaia di ebrei italiani furono internati, cioè all’incirca il dieci per cento degli internati italiani, il che la dice lunga sulla natura razzista dei provvedimenti a loro carico[5]. Ebrei, rom e sinti (stranieri e italiani), oppositori politici furono tutti, in varia misura, internati ontici.

Sulla distinzione fra “internamento” e “concentramento”, è tornato recentemente Carlo S. Capogreco, il quale, nel confermarla, l’ha arricchita di un elemento fondamentale, quello della base legale dei provvedimenti di segregazione, che a lui sembra sia tipica delle prassi di internamento (e dunque dei “campi del Duce”), rispetto all’arbitrarietà e all’assenza di regole tipiche della “concentrazione”. A ben vedere, le considerazioni di ordine legale indebiliscono invece di rafforzare la classificazione che Capogreco propone; correttamente egli infatti attribuisce ai campi di concentramento la natura di luoghi di reclusione per civili ivi costretti sulla base di decisioni di natura puramente amministrativa e dunque «con l’abuso e in spregio alla legalità» [6]. Mentre i campi d’internamento raggruppano e recludono, secondo la sua definizione, gli individui «sulla base di motivazioni che, in genere, costituiscono la giustificazione temporanea di quell’abuso» [7]. Stranamente, egli ne conclude attribuendo una natura “concentrazionaria” alle colonie di confino per oppositori istituite dal fascismo dal 1926 e ai campi coloniali italiani in Libia, mentre i campi istituiti dal regime al momento dell’entrata in guerra nel 1940 sarebbero dei “legali” campi d’internamento. Veri campi di concentramento, per la loro illegalità, arbitrarietà e durezza, furono – secondo Capogreco - anche i campi dell’internamento “parallelo” per civili jugoslavi, gestiti dal Ministero della Difesa nel corso della partecipazione italiana al secondo conflitto mondiale.

Ritengo che questa classificazione proposta da Capogreco nel lavoro di sintesi sui campi italiani non regga e sia fortemente influenzata da una dottrina giuridica e politica sbagliata, quella cioè che vede l’internamento compatibile con l’assetto democratico di uno Stato e addirittura giustifica l’idea che questo valga particolarmente, come scrive Capogreco, nello «stato di guerra, allorché le nazioni hanno il potere (o il dovere giuridico) di procedere all’internamento di determinate categorie di civili»[8]. Bisogna dire che si tratta di una tesi del tutto superata dal dibattito odierno e che, fatto ancora più importante, non corrisponde né in fatto né in diritto alla situazione creatasi nel corso del Primo e del Secondo conflitto mondiale, quando gli Stati, anche democratici, internarono i civili illegalmente e senza basi giuridiche. Cosa, fra l’altro, che alcuni Stati hanno poi riconosciuto, manifestando contrizione e risarcendo le vittime. Non è in poi chiara la distinzione fra abuso e «motivazioni che, in genere, costituiscono la giustificazione temporanea di quell’abuso». La realtà è che si tratta in entrambi i casi di un provvedimento amministrativo, preventivo e ingiustificato.

In secondo luogo, il “decreto del Duce” è appunto ciò che il nome definisce, vale a dire un provvedimento puramente discrezionale, neanche paragonabile ad una garanzia octroyée, alla maniera delle Costituzioni ottocentesche, poiché queste erano appunto delle Costituzioni, vale a dire un sistema di limiti al potere assoluto, per quanto concesso dal sovrano; il “decreto del Duce” è, al contrario, la diretta manifestazione di una volontà sovrana ed arbitraria, che incidentalmente fornisce anche delle garanzie a individui che vengono discriminati e internati sulla sua stessa scorta. Quindi, il “decreto del Duce” del settembre 1940 non può svolgere il ruolo di base legale, allo stesso titolo delle leggi di Norimberga o dei decreti italiani del ’38 in riferimento alle materie “razziali” che essi intendevano regolare; infine, particolare non minore, si tratta di un decreto retroattivo, che giungeva mesi dopo i primi arresti e la cui forza giuridica è dunque quasi nulla[9]. Aggiungerei che, se il paragone viene fatto con il confino per oppositori politici, le misure d’internamento appaiono essere ancor più discrezionali e amministrative, dunque maggiormente concentrazionarie. Basti pensare che, per quanto riguarda il confino, esistevano altre misure preliminari (ammonizione e diffida) e almeno la possibilità di frapporre appello. Infine, il confino era quasi sempre misurato sulle qualità soggettive dell’individuo che, nella maggior parte dei casi, era un oppositore. Gli internati sono invece, in genere, dei nemici ontici ed “oggettivi”.

Con questo non si vuole sminuire la gravità del confino, che abbiamo già visto essere in linea di continuità con l’internamento. Appare però paradossale fare l’inverso e non percepire la differenza fra la lotta politica e la lotta ontica, per quanto fascismo, comunismo e nazismo abbiano spesso mescolato i due fronti. E nel percorso dell’aberrazione ideologica la frontiera del nemico ontico è l’ultima da infrangere: oltre c’è l’abisso del Male assoluto, come affermava Hannah Arendt.

Dal punto di vista del trattamento degli internati, gli scrupoli legalistici del regime, i timori di trattamenti di reciprocità da parte delle potenze belligeranti, un’assenza di crudeltà sistematica nella polizia, ma soprattutto la sconfitta militare che ne sancì la fine prematura, portò il regime fascista a restare fermo sul primo gradino del terrore, quello che Hannah Arendt ha definito l’Ade, vale a dire il clima che si registra in quei campi in cui si recludono in condizioni precarie gli internati ma non si applicano ad essi strategie rieducative, selezionistiche o di schiavizzazione. L’universo concentrazionario ha effettivamente manifestato almeno altri tre gradi di pressione terroristica sugli internati: il Purgatorio rieducativo sovietico e cinese (e nazista d’anteguerra), l’Inferno concentrazionario nazista durante la guerra, la Geenna dei sei centri di sterminio nazisti [10]. Anche il primo gradino ha però prodotto i suoi soprusi, le sue vittime, i suoi morti.

Giuseppe Perri

Estratto da: G. Perri, Stato d’eccezione. L’internamento dei civili nel Secondo conflitto mondiale in Gran Bretagna, Francia, Usa e Italia. Uno studio comparato, ilmiolibro.it 2013, pp. 231-237.

 


 

[1] J. Kotek, P. Rigoulot, Il secolo dei campi, Mondadori, Milano 2002, p. 10.

[2] Cfr. ivi, p. 11. Cfr anche H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Ed.  Comunità,  Milano  1989, pp. 599-629.

[3] Cfr. J. Kotek, P. Rigoulot, Il secolo dei campi, cit., p. 11.

[4] Cfr. G. Boursier, L’internamento degli zingari in Italia, in C. Di Sante (a cura di), I campi di concentramento in Italia. Dall’internamento alla deportazione (1940-1945), Franco Angeli, Milano 2001, pp. 166-168.

[5] Cfr. M. Toscano, L’internamento degli ebrei italiani 1940-1943, in C. Di Sante (a cura di), I campi di concentramento in Italia, cit., pp. 102 e ss..

[6] C. S. Capogreco, I campi del duce. L'internamento civile nell'Italia fascista, Einaudi, Torino 2004, p. 51.

[7] Ibidem.

[8] C. S. Capogreco, I campi del duce, cit., p. 52. Non a caso viene citata, a supporto di questa affermazione, la voce “Internamento” del Lessico universale italiano edito dall’Istituto dell’Enciclopedia Treccani nel 1972. Citare fonti così istituzionali e così datate non giova alla definizione del problema: basti pensare alle difficoltà di imporre la legalità costituzionale nei primi decenni della vita repubblicana a una serie di componenti delle classi dirigenti italiane (anche il “ceto giuridico”: magistratura e dottrina) che erano mentalmente ancora eredi della cultura giuridica e politica precedente.

[9] Cose simili sono dette con chiarezza da Simonetta Carolini: «Se il confino di polizia e il Tribunale speciale hanno una legislazione codificata, illegale e repressiva, ma pur sempre codificata, l’internamento è affidato sostanzialmente ad appunti, dispacci telegrafici, circolari». S. Carolini, Gli antifascisti italiani dal confino all’internamento 1940-1943, in C. Di Sante (a cura di), I campi di concentramento in Italia, cit., p. 115. La Carolini fa anche notare che la tipologia degli internati contraddice la tesi dell’ovvietà del provvedimento d’internamento nelle condizioni di uno stato di guerra. Cfr. ivi, p. 114.

[10] Cfr. J. Kotek, P. Rigoulot, Il secolo dei campi, cit., p. 27-28.

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